Le porte chiuse d’Europa

Sulla frontiera greco-turca con i migranti

source : Il Manifesto

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Ogni anno almeno 150 mila migranti tentano di passare dalla Turchia alla Grecia e di lì negli altri paesi europei. Ci provano in gommone verso le isole dell’Egeo, attraverso le montagne, il fiume e i campi minati della regione di Evros, nascosti nei camion. Di qua, generalmente, li aspettano violenze ed espulsioni

Sara Prestianni
Migreurop

Da un lato la Turchia, dall’altro la Grecia, non c’è un muro a separare i due paesi ma il mare e le sue correnti, il fiume e le sue piene, la terra e le sue mine. Porte d’entrata e d’uscita dei migranti.
Da qui transita chi, in fuga dalla Turchia, vuole arrivare in Europa, ma è anche da qui che, nell’ultimo anno, avvengono le deportazioni illegali.
Ogni anno circa 150 000 migranti fuggono dalla Turchia, raggiungendo le isole del mare Egeo con dei canotti gonfiabili a remi, attraversando il fiume Evros, valicando le montagne, schivando le mine, nascondendosi, ammassati uno sull’altro, nei camion. Sono somali, afgani, pakistani, indiani, iracheni, richiedenti asilo che la Grecia, con un tasso d’accettazione delle domande pari all’1%, rifiuterà.

Quello che succede alla frontiera greco-turca, le violenze e le espulsioni, è stato denunciato negli ultimi anni dall’associazione tedesca Pro Asyle, da Human Rights Watch e dalle reti antirazziste greche, ma poco è cambiato. Il ping pong tra i due paesi continua : chi dovrebbe salvare i migranti in mare, guardia costiera, polizia nazionale e polizia alle frontiere, continua a respingerli dal lato turco. Le mine che sono disperse nella regione d’Evros continuano a mietere vittime, 88 quelle accertate, molte altre quelle lasciate morire in una no man’s land militarizzata. All’ospedale d’Alexandropoulis, due stanze con tanto di sbarre alle finestre e poliziotto di guardia, sono riservate ai migranti. Spesso ospitano chi, saltato in aria su una mina, ha subito un’mputazione degli arti.

Una volta superata la frontiera, molti preferiscono dimenticare ciò che hanno vissuto. Davanti a loro altre frontiere li aspettano e si potranno permettere di ricordare sono quando tutto sarà finito, solo quando avranno trovato, infine, un paese dove riscostruirsi una vita, una vita migliore, come amano dire.

Fahadi, iracheno, però vuole raccontarlo il suo viaggio. E’ la terza volta che parte, ogni volta quando era vicino alla frontiera, è stato rimandato indietro, due volte dai poliziotti turchi, una volta dai greci. Dopo l’espulsione il carcere, dove ammassato con altre centinaia di migranti, resisteva, senza mai dire di essere iracheno, per non essere espulso.
Da qualsiasi valico arrivino, nelle isole o nella regione di Evros, una volta intercettati vengono portati in un centro di detenzione. Il comandante della polizia dell’isola di Samos spiega che la durata di permanenza dipende dalla nazionalità : gli afghani rimarranno nel centro qualche giorno, i somali qualche settimana, gli iracheni due-tre mesi
Il centro di detenzione di Venna, a duecento chilometri dalla frontiera, è uno dei primi aperto in Grecia, un luogo fatiscente, un ex deposito di merce, vicino alla vecchia stazione. Qui viene portato chi è stato intercettato alla frontiera, dopo aver attraversato a piedi le montagne e il fiume Evros, e quelli che, pagando, si sono nascosti nei camion.
Il corridoio è deserto, i duecento migranti sono rinchiuse in sei grandi celle, in cui aleggia un odore acre : le finestre non vengono mai aperte. Dalle celle risuona una musica, incessante, la stessa per tutte le celle, scelta dal medico del centro per far passare le lunghe ore di attesa : tre mesi, 90 giorni, 2.160 ore. Dalla penombra risuonano le voci dei migranti che raccontano la detenzione : due bagni e una doccia per quaranta uomini, un rasoio al mese per due-tre persone, un’ora d’aria ogni tre giorni. « Questioni di sicurezza », ci dicono i responsabili del centro, polizia nazionale e polizia di frontiera. Un giovane pakistano mi mostra il polpaccio dicendomi di essere stato picchiato perché si attardava al telefono, un altro chiede se questo mi sembri un trattamento da riservare a degli esseri umani.

Dopo tre mesi di detenzione, quasi tutti escono con un foglio di via, in greco che non sanno leggere, e che li invita a ritornare nel loro paese entro un mese. Tutti continuano il viaggio verso Atene e poi Patrasso, per scappare dalla Grecia, che i migranti si chiedono se sia veramente Europa, se si pensa alle violenze, alle condizioni di sfruttamento nel lavoro (qualche euro per 10 ore nei campi), per l’assenza totale di protezione e assistenza, per il razzismo. Chi può permettersi di pagare fino a 3000 euro, può comprare un documento falso, pagare i trafficanti, corrompere le autorità portuarie, i camionisti, le compagnie dei traghetti e senza troppi problemi potrà proseguire, in nave, il suo viaggio in Europa. Qualche mese fa 8 poliziotti del porto di Patrasso sono stati accusati e condannati per favoreggiamento del traffico di migranti verso l’Italia.

Gli altri, la maggior parte, quelli che i soldi non li hanno, li si incontra nelle vie di Patrasso, giorno e notte, intenti a cercare la via di accesso all’Europa, le sbarre in cui infilarsi per entrare nel porto, il camion in corsa dietro cui correre e saltare, la stazione di benzina in cui nascondersi e aspettare il momento migliore.


Deportazioni illegali in Turchia

Ed è proprio a Patrasso che ricomincia la giostra delle deportazioni illegali in Turchia. Nell’ultimo anno la polizia ha fatto delle retate, rastrellando tra cento e duecento migranti alla volta. Le ultime poco prima di Natale e à metà gennaio.

K. ci racconta la storia della sua deportazione in Turchia. Parla correntemente italiano perché un anno fa é riuscito a nascondersi in un camion fortunato. Dopo 8 mesi in un centro d’accoglienza a Venezia, dove ha seguito un corso d’avviamento professionale in energie rinnovabili e meccanica, lo convocano per dirgli che le sue impronte digitali sono state ritrovate in Grecia e che, secondo il regolamento Dublino, sarà espulso ma potrà chiedere asilo una volta arrivato all’areoporto d’Atene. Con una carta da richiedente asilo nelle mani, che non da diritto a nulla, ritenta la fuga verso l’Italia, per ricominciare questa volta da illegale, avendo coscienza di non avere più nessuna possibilità se non quella di una vita da clandestino.
A inizio gennaio mentre sta per entrare al supermercato, viene controllato e portato nella cella di detenzione del posto di polizia di Patrasso. Là trova altri 100 afghani, arrestati al porto, per le strade, vicino al campo. Insieme a loro sarà imbarcato sulla nave per Alexandropoulis, ultima grande città prima della frontiera turca.
K racconta che una volta arrivati nella regione di Evros « ci hanno tolto tutto quello che poteva fare pensare che avevamo vissuto in Grecia : vestiti, carte del telefono, documenti, biglietti da viaggio, carte da richiedente asilo ».

Nel cuore della notte, i poliziotti, dotati di binocoli, aspettano che dal lato turco non vi siano controlli per farli attraversare il fiume, con una piccola barca, in gruppi di venti. Una volta di là non resta che ripercorrere la strada per Istanbul e da li riprovare, come avevano fatto giorni, mesi o forse anni prima, a ritornare in Europa.
Ma è proprio su quella strada che molti dei migranti deportati sono arrestati dai poliziotti turchi. Nessun elemento per dimostrare che vengono dalla Grecia, impossibile evitare i centri di detenzione. Oltre alle condizioni tragiche di permanenza, chi entra nelle prigioni turche non sa quando ne uscirà. Come la maggior parte dei centri di detenzione, costruiti alle porte esterne dell’Europa, in Libia, Mauritania, Algeria, Tunisia, anche quelli turchi non hanno esistenza legale e quindi nessuna regola in merito alla durata di permanenza. K. ci dice che alcuni dei migranti deportati sono stati poi espulsi in Afghanistan o lasciati alla frontiera iraniana della Turchia, nella regione di Van, conosciuta per le violenze che vi subiscono i migranti in transito.
La pratica delle deportazioni illegale risulta ancora più assurda se si pensa che i due paesi, nel 2001, hanno firmato un « accordo di riammissione » che prevede che la Turchia riammetta tutti i migranti transitati per il suo territorio prima di arrivare in Grecia. Ma, secondo il segretario del ministero degli interni greco, la Turchia non sembra collaborare e solo il 6% dei migranti è espulso nell’ambito dell’accordo.
Non potendo quindi fare delle « espulsioni legali » la Grecia non esita a deportare i migranti illegalmente in Turchia. Sarà poi il paese vicino, che non deve dare conto all’Unione europea sul trattamento dei migranti e che al contrario è spinta da quest’ultima a gestire il controllo delle frontiere, a fare il lavoro sporco delle espulsioni in paesi in conflitto, come in Irak e Afganistan.


La Grecia, limbo dell’Europa

La Grecia si trasforma per i migranti in una vera e propria trappola. Le impronte lasciate sono una condanna, significano un’attesa di anni per uno status di rifugiati che non avranno mai o la fuga verso altri paesi europei. Il Regolamento Dublino ha come effetto principale la distruzione stessa della protezione internazionale, perché, in nome del principio della « condivisione del peso » impone il trattamento delle domande ai paesi di prima frontiera, che sono quelli che meno garantiscono il rispetto dei diritti fondamentali.

Una volta bloccati in questi paesi non è cosi semplice riuscire a raggiungerne altri, se non a costo di rischiare la vita e a volte di perderla, come è successo con i ragazzi schiacciati dalle ruote dei camion in cui si erano nascosti, a Venezia, Ancona, Bari. Per chi ha attraversato a piedi la frontiera che separa l’Iran dalla Turchia, è stato detenuto in Turchia, ha provato almeno due volte a raggiungere la Grecia, ha attraversato l’Europa nascosto sotto i camion ed è stato deportato illegalmente, il viaggio comincia a durare anni. Il transito spesso si trasforma in installazione, in vita stanziale e precaria, misera e disperata come può essere nel campo informale degli afghani, dove qualcuno sopravvive ormai da due-tre anni, senza neppure sapere se sta ancora realmente provando ad entrare in Italia.

K. finisce la sua storia di deportazione chiedendosi se un giorno troverà un posto dove vivere : « Negli ultimi anni non ho fatto altro che scappare e viaggiare ».