Le morti nel Mediterraneo non sono inevitabili!

La solidarietà è l’ultimo scudo contro le politiche mortali dell’Unione Europea

Dopo diversi giorni di incertezza e confusione, i risultati di questo inizio di aprile nel Mediterraneo centrale [1] – sebbene per il momento ancora provvisori – sono particolarmente disastrosi: centinaia di migranti sfiniti dopo essere stati abbandonati parecchi giorni in mare senza alcun aiuto, 12 persone morte di disidratazione o annegamento [2] e diverse centinaia tornate all’inferno libico da cui hanno cercato di fuggire a tutti i costi. Ma mentre l’Europa spaccia questa tragedia come uno degli inevitabili “danni collaterali” della crisi sanitaria di COVID-19, vale la pena tracciare la genesi delle politiche “let-die” che l’UE sviluppa nel Mediterraneo da diversi anni.

Le guardie costiere europee si rifiutano di rispondere alle chiamate di soccorso o decidono di ignorarle [3], ostacolando le barche dei migranti nel tentativo di raggiungere le coste europee [4], non riuscendo a coordinare le operazioni di salvataggio anche delle barche che si trovano nelle zone di ricerca e salvataggio (SAR) di cui sono responsabili, lasciando centinaia di persone a sfidare la morte in mare per diversi giorni affrontando onde alte diversi metri, mentre le guardie costiere organizzano segretamente, con l’aiuto di mercantili o pescherecci, operazioni privatizzate di rimpatrio in Libia, in violazione del principio di non-refoulement [5]. Questo è il risultato spaventoso degli eventi della seconda settimana di aprile, durante i quali oltre un migliaio di migranti hanno tentato di fuggire al caos libico [6] e alla guerra che imperversa.

“L’Europa è in crisi sanitaria” è la giustificazione di queste azioni con conseguenze fatali. In circostanze eccezionali, risposte eccezionali: il 7 aprile 2020, in seguito al rifiuto di ospitare la barca della ONG Sea Eye che stava cercando un porto sicuro per sbarcare i 150 sopravvissuti che aveva a bordo, l’Italia annuncia di essere obbligata a chiudere i porti. Riferendosi all’epidemia che sta colpendo duramente ilterritorio, l’Italia afferma di non essere più in grado di garantire la sicurezza delle persone che sarebbero sbarcate [7]. Due giorni dopo, Malta ha adottato disposizioni simili, aggiungendo che la sua guardia costiera non sarebbe più stata in grado di assistere i migranti in pericolo in mare [8]. Anche la Libia dichiara che i suoi porti non sono sicuri [9], affermando ciò che le associazioni hanno instancabilmente ripetuto per anni. Pertanto, il risultato è che non vi è nessuno stato del Mediterraneo centrale che accetti di assumersi la responsabilità di salvare i migranti in mare.

Mentre gli Stati europei si nascondono dietro l’emergenza sanitaria per giustificare queste politiche di non assistenza, la retorica della “crisi” è da tempo quasi permanente nel Mediterraneo. Questi ultimi eventi sono in realtà solo un altro passo nella strategia attuata nel corso degli anni per impedire l’accesso al territorio dell’Ue. Accusato dall’agenzia europea Frontex e dagli Stati membri di costituire un pull factor, l’operazione di salvataggio italiana Mare Nostrum era stata interrotta alla fine del 2014, lasciando dietro di sé un vuoto mortale [10]. Le ONG di soccorso nate dal 2015 per colmare questa lacuna sono state a loro volta criminalizzate e le loro azioni ostacolate. Per evitare lo sbarco di persone soccorse durante le missioni di sorveglianza dell’Ue (Frontex e EUNAVFOR MED) [11], li mezzi marittimi di queste operazioni sono stati gradualmente sostituiti da mezzi di sorveglianza aerea. Questo cambiamento di tattica ha permesso agli Stati europei di rilevare prima le imbarcazioni che lasciavano la Libia in modo da farle intercettare dalla cosiddetta “guardia costiera libica”. La nuova operazione Irini, che ha sostituito EUNAVFOR MED dal 1 aprile 2020, riprende questa logica, schierando le sue navi più a est della costa libica, dove ci sono meno possibilità di incontrare le barche dei migranti [12], perpetuando così l’esternalizzazione dei controlli alle frontiere.

Tra il 2017 e il 2018, oltre 91 milioni di euro del Fondo fiduciario di emergenza dell’UE per l’Africa sono stati utilizzati per formare le cosiddette “guardie costiere” libiche e rafforzare le loro capacità di intercettazione [13]. Questa stretta cooperazione tra Ue, Italia e Libia ha provocato una crescita drammatica del numero di migranti tornati in Libia, nonostante sia noto l’inferno che questo paese rappresenti per loro, tra la detenzione arbitraria su larga scala in condizioni estreme, maltrattamenti, torture, richiesta di riscatto, stupri, lavoro forzato, tratta di esseri umani, guerra, razzismo. Violenze sistematiche che spingono migliaia di migranti a tentare il pericoloso attraversamento del Mediterraneo.

Il fatto che le persone continuino a morire in mare per mancanza di soccorso, nelle carceri o sotto le bombe dopo essere stati respinti in Libia [14] non è inevitabile, ma è il risultato delle politiche di esternalizzazione e chiusura di confini. Nella piena consapevolezza dei leader europei, in violazione dei diritti fondamentali dei migranti, queste politiche hanno reso il Mediterraneo centrale la rotta migratoria più pericolosa al mondo: dal 2014 oltre 19.000 morti, 1.260 solo nel 2019 [15]. Queste persone sono state sacrificate sull’altare delle politiche migratorie europee. Presentarli oggi come vittime collaterali di una crisi sanitaria è una totale ipocrisia.

Se le politiche volte a contenere la diffusione del virus sono giustificate, non rendono altresì accettabili le politiche di non assistenza in mare, anche temporaneamente e presumibilmente “eccezionali”, che l’Ue persegue da anni. In nessun caso l’epidemia di COVID 19 giustifica la sospensione degli obblighi degli Stati in materia di salvataggio in mare e la solidarietà che dovrebbe esistere tra loro per organizzare collettivamente l’accoglienza di queste persone bisognose di protezione. Né può giustificare la soppressione dei diritti fondamentali dei migranti, e in particolare il “diritto di fuggire” [16] di coloro che cercano a tutti i costi di scappare dal caos della Libia. Non si può mai tollerare che le vite siano ordinate secondo priorità e disprezzate.

Contro queste politiche di chiusura, esternalizzazione e abbandono, che tendono a trasformare il Mediterraneo in una fossa comune e che sono state esacerbate nelle ultime settimane, migliaia di persone hanno espresso la loro solidarietà. Il team di Alarm Phone ha lavorato instancabilmente per fornire supporto remoto alle persone in difficoltà in mare, per denunciare le varie violazioni subite e per esercitare pressioni sulle autorità responsabili del loro salvataggio. Una delle barche in difficoltà ha potuto così essere soccorsa da una ONG europea. Le azioni e le petizioni che richiedono un aiuto immediato e l’apertura di porti europei si sono moltiplicate [17]. La società civile si sta mobilitando ovunque per salvare vite umane, combattere le politiche mortali dell’Unione europea e organizzare la solidarietà transfrontaliera.

Finché le vite continuano a essere sacrificate nel Mediterraneo e la libertà di movimento per tutti e tutte non viene conquistata, questa solidarietà continuerà ad essere espressa e le nostre voci si faranno sentire affinché possa essere fatta giustizia!