Libia - Continua la congiura del silenzio mentre i libici deportano e torturano i profughi eritrei

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Apprendiamo con angoscia crescente, ogni giorno che passa, delle torture e del rischio di “deportazione in patria” subiti dagli eritrei trasferiti il 30 giugno dal centro di detenzione di Misurata alla prigione di Brak, in pieno deserto vicino Sebha, una prigione gestita direttamente dalle forze di sicurezza libiche. Neppure le decine di persone che erano state gravemente ferite a Misurata, durante i primi tentativi di “identificazione” da parte di rappresentanti del governo eritreo, vengono curate e sembrerebbe che almeno due eritrei non siano più ritornati nelle camerate, dopo essere stati condotti nelle sale di tortura del carcere di Brak. Dopo un viaggio in condizioni disumane, stipati dentro un container, probabilmente trainato da una delle motrici Iveco cedute dall’Italia alla Libia, nell’ambito degli accordi di collaborazione in materia di contrasto dell’immigrazione irregolare, centinaia di uomini, giovani donne e minori, detenuti in condizioni disumane, rimangono esposti ad abusi sistematici, sorte che da anni tocca in Libia a tutti gli eritrei che vengono arrestati dalla polizia, come già confermato da testimonianze dirette e da dettagliati rapporti delle principali agenzie umanitarie, Human Rights Watch ed Amnesty International, da ultimo, proprio pochi mesi fa.

Mentre i carcerieri libici stanno infliggendo, ancora in queste ore, le peggiori torture ai detenuti eritrei, e mentre potrebbero ripetersi gli abusi e le violenze sessuali, che la maggior parte delle donne giunte in Italia dalla Libia hanno confermato, la stampa italiana, con l’eccezione dell’Unità, del GR 3 e di qualche sito web, continua ad ignorare sistematicamente fatti gravissimi che dovrebbero inquietare la coscienza di chiunque. Evidentemente anche chi protesta contro la “legge bavaglio” che limita la libertà di informazione, quando si tratta di abusi subiti da migranti in Libia preferisce tacere, forse perché sarebbe troppo rischioso far conoscere all’opinione pubblica quali e quanti sono i vari responsabili degli accordi tra Italia e Libia contro l’immigrazione irregolare, e quali le connivenze di cui gode nel nostro paese il regime di Gheddafi negli ambienti politici, economici e giornalistici.

Eppure i fatti da raccontare, che hanno anticipato la deportazione dei profughi eritrei, non mancherebbero. All’inizio di giugno Gheddafi ha deciso di chiudere - con l’accusa di svolgere attività illegale- la piccola delegazione di Tripoli dell’Alto Commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati che, malgrado la Libia non aderisse alla Convenzione di Ginevra, almeno riusciva ad incontrare alcuni richiedenti asilo, proprio come gli eritrei trattenuti a Misurata. Una delegazione molto importante, al punto che il governo italiano l’aveva richiamata in diverse occasioni per giustificare gli accordi di cooperazione con la Libia ed i respingimenti collettivi in acque internazionali. Il Parlamento Europeo lo scorso 17 giugno protestava per le esecuzioni capitali che la giustizia libica aveva sancito dopo processi senza alcuna garanzia effettiva di difesa, in alcuni dei quali erano coinvolti anche degli immigrati nigeriani. Nella sua risoluzione, in diversi passaggi, il Parlamento europeo esprimeva anche forte preoccupazione per la sorte dei migranti bloccati in Libia, ricordando il divieto di trattamenti inumani o degradanti, oltre che della tortura e della pena di morte.

Adesso centinaia gli eritrei detenuti in Libia sono sottoposti giorno dopo giorno a trattamenti inumani o degradanti e rischiano di essere riconsegnati ad altri torturatori, che già li attendono nel paese di origine, oppure di essere dispersi nel deserto, ancora una volta alla mercé dei trafficanti e dei poliziotti collusi. La collaborazione Italia-Libia nel contrasto dell’immigrazione irregolare, in realtà nel blocco e nell’arresto di migliaia potenziali richiedenti asilo, procede da un “successo” ad un altro. Il tutto condito dalla “cattiveria” annunciata, e poi praticata dal ministro Maroni. Mentre società italiane si stanno preparando a costruire una barriera elettronica che dovrebbe impedire gli attraversamenti dei confini meridionali della Libia dopo che poliziotti italiani hanno svolto corsi di addestramento degli agenti libici. Ci si potrebbe chiedere, con quali risultati sotto il profilo del rispetto dei diritti fondamentali della persona?

Nessuna delle autorità italiane e straniere alle quali sono stati rivolti accorati appelli per la liberazione degli eritrei deportati da Misurata ha ancora avviato una azione di pressione sulla Libia perché questo scempio di persone innocenti cessi al più presto. Sembra soltanto che sia stata presentata una interrogazione parlamentare, una iniziativa importante ed utile, almeno per fare memoria, alla quale seguirà la solita scontata litania da parte di qualche sottosegretario con delega all’immigrazione, che garantirà il rispetto dei diritti umani in Libia.
Eppure anche il parlamento italiano potrebbe fare qualcosa, dopo avere approvato a larghissima maggioranza, prima alla Camera nella seduta del 21 gennaio 2009, presieduta da Rosy Bindi, con 413 voti a favore, su 513 votanti, appena 63 contrari e 37 astenuti ( i nomi si possono rinvenire nei siti che riportano gli atti della Camera) e poi al Senato, con analoga maggioranza bipartisan il 6 febbraio dello stesso anno, la legge di ratifica 7/09 , pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 40 del 18 febbraio 2009 , e dunque il Trattato di amicizia tra Italia e Libia del 30 agosto 2008, che a sua volta includeva e rendeva operanti i precedenti protocolli d’intesa siglati dal governo Prodi con Gheddafi nel dicembre del 2007. Accordi in base ai quali erano previsti, oltre alla cessione di mezzi navali e terrestri, un sistema di comando interforze unificato a guida libica, “manovre congiunte e scambio di esperti e tecnici”.

Un raro esempio di politica “bipartisan”, che continua con la vicendevole omertà degli ultimi giorni, un caso piuttosto raro ormai, in tempi di (almeno apparenti) contrapposizioni frontali, che in questo campo, quando è in gioco il rispetto dei diritti umani di uomini, donne, minori, sono sfumate in un gelido voto di ratifica sulla base delle politiche di “larghe intese”. Senza che successivamente, almeno, fosse rispettato l’impegno contenuto in un ordine del giorno, approvato contestualmente alla stessa legge di ratifica nel febbraio del 2009, che prevedeva di verificare, dopo un anno, la situazione dei rapporti con la Libia, inviando in quel paese una delegazione parlamentare per verificare lo stato di attuazione degli accordi ed il rispetto dei diritti umani dei migranti. Nell’ultimo viaggio di Berlusconi a Tripoli neppure un cenno a questo tema, mentre veniva risolto l’ennesimo sequestro in acque internazionali, ma ormai affidate al controllo libico, di tre pescherecci mazaresi da parte delle motovedette regalate dall’Italia a Gheddafi. Non si vede che senso possa avere a questo punto sollecitare il rispetto di quei rari passaggi del trattato che richiamano formalmente i diritti umani e spostano la responsabilità dei viaggi della speranza sugli stati confinanti con la Libia, proposta recentemente avanzata da Livia Turco. E’ l’intero Trattato di amicizia con la Libia del 2008, con i protocolli operativi del dicembre 2007, che va immediatamente sospeso.

Sarebbe bene che i parlamentari ed i partiti che hanno approvato gli accordi con la Libia riflettessero sulle attuali conseguenze del loro voto di ratifica degli accordi italo-libici, soprattutto per la legittimazione che quel voto ha rappresentato per le politiche più violente di Gheddafi nei confronti dei migranti, in gran parte potenziali richiedenti asilo, persone che se fossero giunte in Italia, come gli eritrei, avrebbero certamente avuto diritto ad una protezione internazionale, come oggi sono costretti a riconoscere alcuni fautori del Trattato.

Adesso, probabilmente, di molti degli eritrei detenuti e torturati a Brak non si saprà più nulla, i morti saranno fatti sparire come in passato, altri saranno dispersi nel deserto, altri ancora scompariranno nelle segrete delle carceri e nei campi di lavoro forzato in Eritrea, dopo la loro deportazione. Le loro famiglie non sapranno più nulla di loro.
Come è successo per altri migranti che, a partire dal 2004, hanno tentato anche di difendersi inviando istanze e presentando ricorsi ai più importanti organismi internazionali, come la Commissione Europea e la Corte Europea dei diritti dell’Uomo. Il governo italiano, quando è stato chiamato in causa, ha dato prova di raro cinismo, mettendo in discussione la stessa esistenza dei ricorrenti, attaccando sistematicamente gli avvocati che erano riusciti a raccogliere le denunce delle persone, presentate prima della loro espulsione, da centri di detenzione italiani, come negli anni dal 2004 al 2005, o che si era riusciti a fare arrivare fino alla Corte di Strasburgo, per la prima volta lo scorso anno, da un un centro di detenzione in Libia, dopo un respingimento collettivo praticato direttamente da mezzi militari italiani.
Adesso il timore è che, ancora una volta, coloro che hanno presentato ( o potrebbero presentare) denunce e ricorsi davanti a tribunali o organismi internazionali possano essere deportati dalla Libia e quindi fatti scomparire.

La Corte Europea dei diritti dell’uomo, con una decisione assai grave ( Caso Hussun/Italia del 19 gennaio 2010), che riguardava un gruppo di immigrati trattenuti nel 2005 in un centro di detenzione italiano, alcuni fuggiti dal centro e quindi irreperibili nel territorio italiano, altri successivamente espulsi in Libia, ha affermato che la circostanza che i migranti avessero perso i contatti con gli avvocati, magari a distanza di anni di tempo dal ricorso, rendeva lo stesso ricorso individuale privo di un interesse da affermare, quasi come se fosse venuto meno l’interesse della persona (che aveva lamentato una violazione della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’uomo ma che non era più in contatto con il suo avvocato) ad ottenere una sentenza di condanna dello stato che era chiamato in causa.
Al paragrafo 49 della decisione di cancellazione dal ruolo del caso Hussun/Italia, si osserva come “tenuto conto della impossibilità di stabilire il benché minimo contatto con i ricorrenti in questione, la Corte considera che i loro rappresentanti non possono, in modo significativo, continuare la procedura pendente innanzi a lei (vedere, mutatis mutandis, Ali c. Svizzera, 5 agosto 1998, §§ 32-33, Recueil des arrêts et décisions 1998 V e Tubajika c. Paesi Bassi, no 6864/06, dec. 30 giugno 2009)”. Secondo la Corte “in queste circostanze, è in effetti impossibile approfondire la conoscenza di elementi di fatto riguardanti la particolare situazione di ogni ricorrente. Soprattutto per quanto riguarda i ricorrenti espulsi, non è possibile per la Corte acquisire informazioni riguardanti, da una parte, il luogo in cui questi ricorrenti sono stati rinviati in Libia e, dall’altra parte, le condizioni di accoglienza di questi ultimi da parte delle autorità libiche”. Come se si dovessero attendere le memorie scritte dei ricorrenti espulsi in Libia per conoscere le “condizioni di accoglienza”o, meglio, a “quali trattamenti disumani o degradanti” sarebbero stati esposti in maniera sistematica, abusi sui quali non si dovrebbe più dubitare, come recentemente ammesso anche dal Comitato per la prevenzione della tortura (CPT) dello stesso Consiglio d’Europa, in un dettagliatissimo rapporto sulla Libia.

Una decisione, questa della Corte di Strasburgo che, se si legge oggi alla luce delle “sparizioni” sistematiche di migranti detenuti in Libia, “sparizioni” che si stanno verificando in modo più evidente e tragico in questi giorni, ma che si sono verificate anche negli anni passati, ai danni di nigeriani e somali soprattutto, oltre che di eritrei, interroga sul ruolo effettivo di garanzia che la Corte può ancora assolvere nei casi di trattamenti inumani o degradanti inflitti ai migranti irregolari espulsi o respinti in quel paese o in altri paesi di transito, o nei casi di respingimento collettivo, praticati con il concorso di autorità appartenenti a paesi firmatari della Convenzione, casi vietati adesso anche dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

Vorremmo invece, oltre al blocco - già avvenuto- dei negoziati tra l’Unione Europea e la Libia in materia di immigrazione, che la Corte Europea dei diritti dell’uomo si pronunci al più presto sul ricorso presentato contro l’Italia dopo i respingimenti collettivi in mare effettuati da nostre unità militari il 6 e 7 maggio dello scorso anno. Da quella decisione e dalla sua portata potrebbe dipendere il destino di molte vite, non solo quello dei ricorrenti, una circostanza che, al di là del carattere individuale del ricorso, la Corte di Strasburgo non può certo ignorare.

Non sappiamo come e quando il Parlamento Italiano rispetterà i suoi impegni di inviare una delegazione in Libia per verificare l’applicazione degli accordi, con specifico riferimento al rispetto dei diritti umani dei migranti arrestati in quel paese e dei potenziali richiedenti asilo. Vorremmo soltanto che i parlamentari, che nel 2009 hanno votato in massa a favore di quegli accordi, pensino qualche volta alle tragiche notizie che giungono dalla Libia ancora in questi giorni, quando guardano negli occhi figli e mogli al sicuro nelle loro case. E che magari provino a sollecitare in Parlamento una sospensione immediata degli accordi con Gheddafi fino a quando la Libia non si atterrà, nella forma e nella sostanza, al rispetto delle convenzioni internazionali che garantiscono i diritti umani e la protezione dei rifugiati. Speriamo ancora che, anche tra coloro che in passato hanno votato a favore degli accordi con la Libia, si diffonda e possa alla fine prevalere la consapevolezza delle conseguenze dirette ed indirette di quella scelta.

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